Sono stati sepolti nel 1979 in uno scantinato di Tehran. E da allora mai più visti. “Questi quadri sono come figli per me, ho speso la vita a custodirli. Da 40 anni si trovano al sicuro, ma è tempo che mi abitui all’idea di vederli partire”. Firooz Shahbazi Moghaddam, 65 anni, è il guardiano di un gioiello stimato fra i 3 e i 5 miliardi di dollari: la più importante collezione di arte moderna occidentale fuori dall’Occidente. Una raccolta leggendaria, fatta di decine di capolavori di Picasso e Pollock, Warhol e Rothkos, ma anche Van Gogh, Monet, Mirò, Gaugin, Magritte, Pissarro, Munch. Un patrimonio perfettamente conservato, che ha attraversato gli anni e i paradossi iraniani nelle viscere del Museo di Arte Contemporanea di Teheran. E che oggi si prepara ad affrontare per la prima volta il ritorno in Occidente: un accordo con le autorità prevede che una selezione di 60 opere – 30 straniere e 30 iraniane – sia esposta in Germania (a Berlino) e poi in Italia (al Maxxi di Roma) a partire dal prossimo autunno. “Alcuni quadri erano già usciti dal paese – spiega Shahbazi – un Pollock è stato prestato al Giappone, un Picasso a Basilea”. Ma questa sarà la prima trasferta estera della collezione, assemblata a Tehran da Farah Diba negli anni ’70, e da allora scomparsa per l’Occidente.
Petroldollari contro arte- Passo indietro. E’ il 1973: l’improvviso aumento del greggio da 3 a 12 dollari al barile, getta l’economia mondiale in una crisi profonda, e riempie d’oro le casse dello stato iraniano. Mentre lo Scià Mohammed Reza Pahlavi si lancia in una faraonica opera di modernizzazione del paese, l’imperatrice approfitta dello stato al ribasso del mercato dell’arte internazionale, per promuovere una campagna di acquisti a buon prezzo: Tehran avrà un Museo di Arte Contemporanea degno di una grande capitale moderna. La costruzione dell’edificio viene affidata al cugino di Farah Diba, l’architetto Kamran Diba. Pochi mesi prima dell’inaugurazione – nel 1977 – Firooz Shahbazi Moghaddam, uomo semplice, un diploma tecnico in tasca, nessuna particolare propensione per l’arte, viene assunto come autista. Fra i suoi compiti, anche quello di andare in giro a scovare botteghe e laboratori locali. Dei 3.200 pezzi che oggi compongono la collezione – fra dipinti, sculture, litografie e fotografie – almeno duemila sono iraniani: testimonianza tangibile di una passione e tradizione artistica ancorata alle radici più profonde del paese. “Cominciai a informarmi – racconta – volevo capire perché questi quadri fossero così importanti. Ricordo il giorno dell’inaugurazione del Museo, c’era gente dappertutto, anche sugli alberi. Fu una grande festa”. Ma la Rivoluzione del 1979 è dietro l’angolo: celebrando l’inizio della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Khomeini fa della lotta all’ “intossicazione da Occidente” uno dei cavalli di battaglia della rivolta, e mette all’indice musica, libri, film. Arte ‘decadente’. Nel momento più difficile, mentre la collera rivoluzionaria spazza le strade di Tehran costringendo Scià e consorte ad una rapida fuga, la collezione – statale – viene rapidamente imboscata nello scantinato, in cerca di riparo dagli eventi. Nelle settimane successive è il caos: dopo qualche esitazione, il direttore del museo Mehdi Kowsar fugge all’estero, altri collaboratori si dileguano. Shahbazi resta al suo posto.
Barricato nel sotterraneo con i dipinti – E’ lui a interporsi fra i gruppi di miliziani e i capolavori di un’arte incriminata, portatrice di valori incompatibili con quelli delle nuove autorità. Un’arte che l’autista forse non capisce. Ma intimamente fa sua, abbraccia. E protegge. “Ho pensato subito ai quadri, non avevano né padre nè madre. Dovevo difenderli, non volevo che qualcuno se li portasse via, o peggio”. Mentre i combattenti presidiano l’edificio, Shahbazi – eroe per incidente del destino – non si muove dal sotterraneo, di cui possiede la chiave. Ostaggio di una missione non programmata. Quando la commissione scelta dalle autorità si presenta al museo, l’autista non esita ad aprire lo scantinato. A mostrare che non c’è nulla da temere. “Li ho portati giù a vedere i dipinti: non erano venuti per distruggerli, avevano un modo di fare amichevole. Qualcuno non capiva come dei disegni così semplici, quasi infantili, potessero avere un valore così elevato”. Quando la porta del sotterraneo si richiude, Shahbazi si ritrova promosso: da autista a custode. Di un fardello ingombrante, incomprensibile. Ma pur sempre un tesoro.
La Donna d’oro di Kooning – Passano gli anni, il Museo si trasforma in Memoriale dei martiri: prima quelli della rivoluzione, poi della guerra con l’Iraq. Protetta dall’abnegazione del suo guardiano più che dal divieto di un commercio ‘immorale’, la collezione sopravvive allo spasmo della Storia. Raramente qualcuno viene a chiedere un dipinto per una mostra, o per uno dei palazzi dello Scià. Shahbazi è sempre lì, novello Drogo abbracciato alla Fortezza, a vigilare: ormai ne conosce a memoria ogni dettaglio, la custodia di quei quadri dà senso all’indecifrabile. “Con qualche scusa rifiutavo di aprire il sotterraneo; temevo che, una volta prestati, i dipinti non sarebbero stati restituiti. Era molto meglio se rimanevano qui, al sicuro”. In quattro decenni, solo una volta un’opera esce dal Museo per non tornarvi. E’ la ‘Woman n. 3’ di Willem De Kooning, scambiata nel 1994 con un antico libro di poesia persiane di grande valore per la storia del paese, il Shahnama, or Book of Kings. Valutato 20 milioni di dollari (di cui solo 10 vanno al proprietario del libro), il quadro viene poi rivenduto dal ghiotto collezionista-mediatore David Geffen a 137 milioni. Un guadagno netto esorbitante, che di certo non incoraggia le autorità iraniane ad avventurarsi in altri scambi. Aumenta intanto la coscienza iraniana di quel patrimonio conservato nel sotterraneo, e con essa le pressioni della società civile per accedervi. Le voci di artisti, intellettuali, studenti si fanno più forti. Nel 1999, con l’elezione del presidente riformatore Mohammad Khatami, un vento nuovo libera la cultura dal ruolo di addetto-stampa della teologia sciita. Il ministro Ata’ollah Mohajeran elimina la richiesta di autorizzazione preventiva per le mostre, e nomina a capo del Museo Alireza Sami Azar, architetto molto attivo nel promuovere gli artisti iraniani, creare contatti, riaprire le porte all’Occidente. Il tempo è maturo per la prima rassegna di arte pop: dallo scantinato riaffiorano le tele di Roy Lichtenstain e Robert Rauschenberg, ma anche quelle di Andy Warhol, fra cui un Mick Jagger, una Marilyn Monroe, e una serie di ritratti a colori di Mao. Nel 2005 – mentre il pendolo torna a battere per i conservatori con l’elezione del presidente Ahmadinejad – Sami Azar si spinge ancora più avanti, tirando fuori 188 opere, fra cui il famoso trittico di Francis Bacon “Two Figures Lying on a Bed with Attendants” (per il quale una Fondazione di Monaco sembra abbia oggi offerto 103 milioni di EUR, respinti dagli iraniani). Nel dipinto si vedono due uomini nudi, nello stesso letto, sdraiati sul fianco. Le autorità non apprezzano. Il quadro viene rimosso, e dopo poco anche il direttore, che oggi insegna Storia dell’Arte Moderna all’Istituto di Arte e Cultura Mah-eMehr. Ma il processo si è messo in moto. E non tornerà indietro.
Aste milionarie- Se l’ alternanza fra conservatori e riformisti può allentare o meno le maglie della censura – e la partenza per l’Europa della collezione rientra nel quadro di detente inaugurato dalla presidenza Rouhani – il cambiamento sociale è ormai inesorabile. La scena culturale iraniana – perennemente affamata d’arte – appare sempre più vivace: vi si affacciano i giovani, le donne, si moltiplicano i galleristi e i collezionisti. Molti dei quadri del famigerato sotterraneo vengono oggi esposti a rotazione nel Museo, insieme a quelli di artisti locali: ultimo esempio, la retrospettiva dedicata alla pittrice Farideh Lashaei nel dicembre scorso. Certo il mercato internazionale rimane un miraggio: nonostante il (teorico) annullamento delle sanzioni, il sistema bancario iraniano è ancora tagliato fuori dal resto del mondo, rendendo tutt’ora attivo l’ embargo. Tuttavia – ce lo insegnano 25 secoli di storia – nessuna invasione, nessun assedio può estinguere la sete di autonomia degli iraniani, smorzarne l’orgoglio. Imbrigliarne la determinazione. Ecco dunque prendere il largo la Tehran Art Auctions, casa d’aste privata che l’anno scorso, in una sola sessione al Grand Azadi Hotel di Teheran, ha venduto quadri per 5 milioni di EUR. Addio Christie’s Dubai o Sotheby’s. Sono poco meno di 200 le gallerie d’arte (private) nate negli ultimi dieci anni nel paese. E mentre in città insolite gigantografie di Picasso e Matisse rimpiazzano – per qualche giorno – annunci pubblicitari di lavatrici e telefonini, Shahbazi si prepara ad impacchettare gli amati dipinti per spedirli all’estero. Lontano come sempre dalla politica, il custode del tesoro è ormai in pensione, anche se non riesce ad allontanarsi dal sotterraneo cui ha legato l’esistenza. E infatti è tornato al lavoro per catalogare i pezzi d’arte e di fotografia iraniani. Lo trovi sempre lì, in cantina. Al suo tavolo. L’uomo che non sapeva cosa fosse l’arte, e che ha dedicato la vita a proteggerla. Stanno arrivando i Tartari, è tempo di andare. E di lasciarla andare.