Come si fa a misurare il mondo?
Grazie alla più artistica delle scienze, alla più scientifica delle arti: la cartografia, che ci racconta chi siamo, cosa c’è intorno a noi. In che relazione ci poniamo col territorio che ci circonda. Già gli uomini preistorici si facevano queste domande, solcando scene di caccia sulle pareti delle grotte. Oggi in Italia c’è uno scrigno deputato a raccogliere la storia di come è stato illustrato il globo; un luogo in cui le diverse mappature della superficie terrestre continuano ad evolversi, passando dai goniometri al Global Positioning System (GPS). E’ l’Istituto Geografico Militare, organo cartografico dello Stato Italiano, distaccato da Torino a Firenze insieme alla capitale nel 1865, e da allora mai più mosso: unico ente rimasto decentrato nel processo di costituzione e crescita di uno stato unitario. Non trasferito a Roma forse perché nessun altra città come Firenze poteva realizzare la stessa sintesi fra sperimentazione scientifica e arte grafica. Nessuna poteva vantare quella ricchezza di ricerche astronomiche, quei grandi laboratori rinascimentali di disegno, che riuscirono a fare della patria adottiva di Galileo il baricentro della cartografia italiana. Allora come oggi.
Nei locali di via Battisti – un tempo Convento dei Serviti, poi serraglio di leoni e infine scuderie granducali – c’è innanzitutto la Storia. A cominciare da quella dei Romani, che avevano un impero da mappare e pochi ma ingegnosi mezzi per farlo. E che cosparsero il mondo di pietre miliari. Nei corridoi del Museo degli Strumenti sfila una serie di congegni ideati dagli avi per rispondere all’eterna domanda: dove ci troviamo, esattamente? Ecco la riproduzione di una ‘tabula peutingeriana’ (dal nome del primo divulgatore, Konrad Peutinger), 24 metri di pergamena arrotolata, che funzionari, consoli o prefetti si mettevano sotto il braccio prima di incamminarsi sulla Flaminia o l’Aurelia. Una vera carta topologica basata su rilievi militari, in grado di guidare qualsiasi spedizione lungo stazioni di sosta, fiumi o città posizionate sulle vie basolate dell’Impero. Che per frazionare i centri abitati aveva importato dai Greci la groma, attrezzo di legno capace di definire il castrum tracciando cardo e decumano sul terreno; o l’odometro, per misurare la distanza percorsa grazie ai giri di una ruota … Un patrimonio storico-cartografico immenso, quello di via Battisti: oltre 120.000 i volumi nella Biblioteca dell’Istituto, comprensivi di Atlanti rarissimi, pubblicazioni di Galileo, una copia delle ‘Rime’ del Petrarca, addirittura un’originale del “Teatrum Orbis terrarum” di Abramo Ortelio. Oltre 400 gli antichi strumenti conservati nel Museo: telescopi e compassi, cannocchiali e cerchi goniometrici. Che ci parlano di come nel tempo si sia rappresentata la superficie terrestre, guardando prima le stelle, poi il mondo.
“La prima carta d’Italia è del 1470 – spiega Stefano Tagliaferri, funzionario cartografico all’IGM – ma la prima ‘grafia’ corretta del pianeta si ha nel 1700: precedentemente, il mondo è in gran parte solo immaginato”. La differenza la fanno i punti geodetici: quei capisaldi posti su campanili, cime dei monti, confluenze dei fiumi cui sono attribuite le coordinate essenziali per mappare il territorio. “In modo diretto, cioè grazie a topografi che andavano in campagna portandosi sulla schiena strumenti come l’apparato di Bessel – continua Tagliaferri – si riusciva a calcolare con precisione distanze fino a 3 chilometri: ma i tratti più ampi erano desunti per processo trigonometrico, cioè misurando angoli e derivandone i lati. Per secoli, abbiamo individuato angoli e dedotto grandi distanze”. La vera rivoluzione arriva con la fotografia aerea: nasce la fotogrammetria, ovvero l’analisi di foto per la realizzazione di mappe. Grazie alle competenze artigianali interne all’IGM, già nel primo dopoguerra l’istituto diventa leader mondiale nella costruzione di strumenti capaci di restituire graficamente le immagini riprese dall’alto. “Abbiamo in mostra gli stereo cartografi di Ermenegildo Santoni – prosegue Tagliaferri – strumenti unici per l’epoca, in grado di realizzare carte in scala dei terreni fotografati”.
Raffigurare la terra, illustrare il territorio: cambiano i tempi, le sfide dell’Istituto si adeguano. Con lo scioglimento delle nevi perenni, per esempio, i confini italiani – le cui linee sono affidate alla manutenzione dell’IGM – si stanno spostando. Le nostre frontiere sono infatti stabilite da trattati internazionali fondati sull’(implicita) inamovibilità dei ghiacciai: ma la scomparsa delle creste, fa oggi emergere rocce non più in asse dal punto di vista planimetrico. Ed ecco sorgere – insieme ai nuovi picchi – la contesa con l’ Austria relativa i resti millenari della mummia di Otzi; o quella con la Francia per le competenze sul Monte Bianco. In pratica, l’Istituto sta oggi lavorando ad una ri-determinazione dei confini, che dovrà poi essere tradotta in nuovi accordi internazionali.
Ma se i cambiamenti climatici possono incidere sulla cartografia, quelli tecnologici sembrano addirittura stravolgerla. Nell’era dei GPS, che senso hanno le carte topografiche? “Ogni anno riceviamo i dati satellitari di molte stazioni permanenti, alcune di proprietà dell’Istituto, altre no – spiega Tagliaferri – E’ un’elaborazione continua, tesa a determinare le nuove coordinate dei punti geodetici: questo perché noi non siamo fermi, bensì navighiamo su una specie di zattera di gomma, la nostra zolla tettonica, che si adatta a ciò che sta sotto, al mantello della terra”. E’ questa elaborazione a dirci che ci spostiamo ogni anno di circa 3,3 cm verso i Balcani. E che la velocità del versante Adriatico è superiore di 2,8 mm a quella del Tirreno, in una sorta di movimento a forbice corrispondente alle zone dei più recenti terremoti , le Marche, l’Umbria. L’Irpinia. Sono i satelliti a dirlo, e l’IGM a ricalcolarlo: l’Italia in effetti si sta ‘aprendo’ in due.
Il lavoro di chi misura il mondo forse è appena cominciato.